A pochi giorni dalla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, un focus sul femminicidio, dalle fattispecie di violenza alla violenza sessuale.

Sono quasi sette milioni le donne che hanno subito nel corso della loro vita una forma di abuso (violenza domestica, violenza psicologica, violenza sessuale, ecc.).

Nostro malgrado, questi fenomeni sono riportati dalla cronaca (italiana ed estera) ormai quotidianamente denotando un clima di paura e incertezza. Incertezza che si muove su due direzioni parallele: la continua denuncia da parte di numerose associazioni antiviolenza da un lato, e il timore, dall’altro, che molte donne nutrono nel riconoscersi come soggetti esposti a un rischio irriducibile. È il timore di essere partecipe di un fenomeno che non sembra poi così lontano dalla vita di tutti i giorni.

La violenza sessuale è solo una delle categorie particolari comprese nel concetto più grande di violenza adottato dalla World Health Organization. «L’uso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, altre persone o contro un gruppo o una comunità, da cui conseguono, o da cui hanno una alta probabilità di conseguire, lesioni, morte, danni psicologici, compromissioni nello sviluppo o deprivazioni» (OMS, 2012).

La violenza, quale coazione fisica o morale esercitata da un soggetto ad un altro per indurlo a subire o a compiere atti che altrimenti non avrebbe voluto liberamente compiere o subire, è molto ampia e si può sviscerare in molteplici fattispecie. Tra queste ricorrono:

  1. violenza fisica: consistente in qualsiasi forma di aggressività dal punto di vista fisico;
  2. violenza psicologica: consistente in attacchi diretti a colpire la dignità personale tramite forme di mancanza di rispetto o altri comportamenti volti a ribadire continuamente uno stato di subordinazione e di condizione di inferiorità;
  3. violenza domestica: compiuta all’interno dell’ambiente domestico;
  4. violenza assistita: consistente nell’esperienza da parte di minori di qualsiasi forma di maltrattamento su figure di riferimento o affettivamente significative;
  5. violenza economica: consistente in forme dirette od indirette di controllo sull’indipendenza economica che limita o impedisce la disposizione libera di denaro;
  6. violenza sessuale: consistente in qualsiasi imposizione di coinvolgimento in rapporti sessuali senza il consenso;
  7. atti persecutori (stalking): consistente in vere e proprie persecuzioni e molestie assillanti per indurre la vittima ad uno stato di allerta, di emergenza e di stress psicologico;
  8. mobbing: consistente in una serie di comportamenti violenti perpetrati da parte di uno o più individui ai danni della vittima;
  9. cyber-violenza: consistente in azioni aggressive ed intenzionali eseguite tramite strumenti elettronici a danno della vittima.

Tra gli atti di cui spesso sono vittime le donne figurano violenza sessuale, stalking e violenza domestica. L’insieme di questi fenomeni viene denominato femminicidio e si qualifica come «violenza estrema esercitata sistematicamente dall’uomo sulla donna in ragione della sua appartenenza al genere femminile per motivi di odio, sadismo, disprezzo, passionali o per un senso di possesso o di superiorità o di dominio sulla donna» (Russel-Radford, Feminicide: The politics of woman killing, New York, 1992). Il reo può essere tanto un uomo sconosciuto tanto un amico, compagno o parente della vittima.

Violenza sessuale e consenso

La fattispecie della violenza sessuale è disciplinata dall’art.609-bis[1]c.p. inserito in tempi relativamente recenti nell’ordinamento. Una prima connotazione emergente dalla lettura della norma attiene alla scelta di guardare alla tutela della persona piuttosto che alla connotazione sessuale delle condotte incriminate.

L’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è costituito dal dolo generico che si sostanzia nella coscienza e nella volontà di compiere un atto lesivo a terzi, mentre quello oggettivo nell’atto sessuale in sé. L’elemento scriminante la questione consiste però nel consenso della parte offesa. Il consenso è discrimine del comportamento affinché questo sia tacciato di violenza e quindi costituisce non una causa di giustificazione dell’atto violento ma un limite alla connotazione stessa dell’atto quale violento.

La giurisprudenza stessa riconosce un ampio margine al concetto di violenza e di minaccia e in taluni casi riconosce nel dissenso, o meglio nel mancato consenso, il requisito esplicito. Commette reato colui che non riceve consenso dalla vittima a compiere l’atto sessuale.

Sebbene questo rappresenti il principio in via generale, la giurisprudenza ha avuto orientamenti diversi concernenti la definizione del concetto di consenso. Si prenda in esame la famosa ‘sentenza dei jeans’ per la quale il consenso alla congiunzione carnale era esplicitato dalla mancanza di resistenza della vittima desunta dalla collaborazione nello sfilare l’indumento (Cass., n. 1636 del 6 novembre 1998). Il consenso in esame quindi non è esplicito, ma desunto da comportamenti che la parte offesa terrebbe nei confronti della parte attrice della violenza prescindendo dall’analisi di fattori esterni quali paura, timore, irrequietezza, ecc. La Corte di Cassazione si è successivamente espressa a riguardo (Cass. n. 22049 del 19 maggio 2006) affermando che per la configurabilità del reato di violenza sessuale non è rilevante il comportamento remissivo della parte offesa o l’assenza sul corpo della stessa di segni di violenza. Questo però non comporta un peso unilaterale sul comportamento dell’imputato ma cerca di rendere più elastico il dettato normativo considerando offesa la parte non consenziente. Vi sono infatti situazioni in cui la parte offesa, nonostante sia dissenziente, non oppone resistenza per motivi di soggezione psicologica. In quest’ultimo caso si suole parlare di “costrizione ambientale agli atti sessuali”. La Suprema Corte ha inoltre esplicitato un altro concetto, “abuso di potere”, riguardante qualsiasi atto sessuale compiuto da un’autorità pubblica o privata nei confronti di propri sottoposti.

Il consenso deve essere circoscritto ad alcune caratteristiche. Anzitutto deve essere continuativo ossia deve perdurare nel corso di tutto l’atto sessuale; non può essere presunto. Sebbene le parti in causa siano congiunte in matrimonio o in altri rapporti sentimentali, si ritiene violenza sessuale anche il costringimento di un partner al rapporto sessuale contro la sua volontà. Il tacito consenso è altresì escluso nei casi in cui la parte offesa indossi vestiti succinti (Cass. n. 34870 del  9 settembre 2009) o che sia in stato momentaneo o permanente di incapacità fisica o psichica.

In particolar modo, con riguardo particolare al caso dell’abuso sessuale all’interno del vincolo matrimoniale, la giurisprudenza offre molteplici interpretazioni. Si prendano in esame due importanti sentenze della Cassazione, le quali offrono due posizioni giurisprudenziali differenti su uno stesso tema: il rifiuto di un coniuge a intrattenere rapporti sessuali con il partner. Si parta con ordine. L’articolo a cui le due sentenze fanno riferimento è il 143 c.c., il quale annovera tra i doveri coniugali “l’assistenza morale e materiale”. Nell’assistenza morale e materiale sono ricompresi, oltre agli obblighi di supporto psicologico, economico e affettivo, anche tutti quei comportamenti che sono riferibili al concetto di comunione coniugale. Tra questi comportamenti la giurisprudenza ha ravvisato l’obbligo di avere una piena comunione, anche sessuale, con il proprio coniuge. Un rifiuto continuo, all’interno del vincolo matrimoniale, di intrattenere rapporti sessuali ed affettivi, creerebbe infatti dei danni a livello psicologico nel partner, essendone offesa la dignità e la personalità. Al coniuge che si rifiuta ingiustificatamente potrebbe essere addebitata quindi la separazione in quanto impedirebbe l’esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato. Differente è invece la posizione della Corte di Cassazione penale con la cui sentenza del 2015 ha escluso l’esistenza di un diritto assoluto del coniuge al compimento di atti sessuali. La Corte infatti ha interpretato l’art. 143 c.c. in modo tale da non comprendervi alcun obbligo al compimento di atti sessuali. Altresì ha aggiunto che, proprio al fine di integrare il reato di violenza sessuale, è da escludere che possa essere lecito un qualsivoglia comportamento teso al costringimento fisico-psicologico per incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione. È quindi ravvisabile che, nonostante il rifiuto del coniuge non sia espresso in modo esplicito, la violenza è perpetuata anche se l’agente sia consapevole di un rifiuto implicito da parte della persona offesa.

[1]Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.