MES sì o MES no? Ad accendere l’interesse mediatico sul tema è stato l’ex Ministro Matteo Salvini il quale nei giorni scorsi ebbe ad accusare il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, di alto tradimento per aver, a suo dire, firmato nottetempo il trattato ancorché incompleto. Proprio nei giorni scorsi il leader del Carroccio ha raccolto in 1500 piazze italiane più di 400.000 firme per chiedere la sospensione del MES.

È bene a tal proposito interrogarsi sull’opportunità dell’Italia di firmare il trattato, ovvero sulla necessità di una sua sospensione. MES sì o MES no? Per rispondere a questi dubbi non si può prescindere da una breve analisi del MES al fine di disaminare le critiche da più parti rivolte.

Il MES è un’istituzione finanziaria internazionale, sottoposto al diritto internazionale, che fornisce assistenza finanziaria ai paesi dell’eurozona che si trovano in difficoltà finanziarie o ne sono minacciati.

Esso costituisce un fondo monetario permanente volto a dare sostegno temporaneo ai paesi che hanno adottato l’euro in caso di crisi e di probabile default cioè di insolvenza, incapacità di pagare i propri debiti. Il fine è mantenere la stabilità finanziaria della zona euro.

Il MES (o ESM, European Stability Mechanism) ha entra in vigore nel 2012 per sostituire gradualmente il Fondo europeo di stabilità finanziaria e del Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria.

Esso viene gestito da:

  • un Consiglio dei Governatori cui fanno parte i Ministri delle finanze dei Paesi europei;
  • un Consiglio di Amministrazione, i cui membri sono nominati dal Consiglio dei Governatori;
  • un Direttore Generale con diritto di voto;
  • dal commissario europeo agli Affari economico-monetari;
  • dal Presidente della BCE, questi ultimi in qualità di osservatori.

Le decisioni del Consiglio vengono prese con una maggioranza pari all’85% e il diritto di voto è proporzionale alla quota versata dal singolo Stato. Nel caso dell’Italia, il diritto di voto è pari al 17% e pertanto l’Italia ha diritto di veto.

Il MES ha un capitale complessivo di 704 miliardi di euro, dei quali 80 miliardi versati direttamente dagli Stati aderenti e 624 miliardi in capitale di garanzia (non ancora direttamente versato, ma solo in caso di necessità). Ha una capacità di prestito complessiva pari a 500 miliardi di euro.  Le contribuzioni sono commisurate a PIL e popolazione. L’Italia contribuisce per il 17,8% cioè 14 miliardi di capitale versato, ma può rispondere fino a 125 miliardi, versando 14 miliardi di capitale e ne ha messi a garanzia altri 111, per un impegno totale di 125 miliardi, proporzionale al suo peso in termini di Pil rispetto agli altri Stati aderenti.

Il MES dalla sua nascita è stato decisivo nella risoluzione delle crisi dei Paesi che avevano perso accesso al mercato come ad esempio la crisi greca. Rappresenta una sorta di «assicurazione» (così come l’ha definita Giampaolo Galli), in quanto tranquillizza i mercati e rende meno probabile il ripetersi di situazioni di problematiche. È una manifestazione di solidarietà dei Paesi più solidi nei confronti di quelli più fragili dal momento che raccoglie fondi al fine di sostenere e finanziare gli Stati in temporanea difficoltà finanziaria.

Le modalità d’azione del fondo sono disciplinate dall’articolo 3 del trattato istitutivo, sono molto celeri perché terminano in appena sette giorni. Possono essere suddivise in tre fasi:

  1. lo Stato in difficoltà avanza una richiesta di assistenza al Presidente del Consiglio dei Governatori del fondo salva-Stati;
  2. il MES chiede alla Commissione europea di valutare lo stato di salute del Paese che ha chiesto aiuto e di definire il suo fabbisogno finanziario. In questa fase l’esecutivo comunitario e la BCE (e se necessario il FMI) analizzano se la crisi di quello Stato può contagiare il resto dell’Eurozona;
  3. dopo la valutazione, l’organo plenario del MES decide di agire e aiutare il Paese in difficoltà.

Dal 2017 si è avanzata l’ipotesi di rivedere il trattato, aprendo un acceso dibattito. La riforma infatti dovrà ricevere l’approvazione dei governi oltre che la ratifica parlamentare di ciascuno Stato.

Le principali novità del testo di riforma rispetto al Trattato originario sarebbero le seguenti:

1) Anzitutto, per accedere al fondo occorre rispettare diversi parametri fiscali e macroeconomici, tra i quali:

  • un rapportodeficit/Pil inferiore al 3%. Tale rapporto è stabilito dal Trattato di Stabilità e di Crescita del 1997. Con deficit pubblico si suole indicare la differenza negativa tra entrate e uscite pubbliche. Il deficit viene calcolato in rapporto al PIL in modo da definire la possibilità di ripagare il debito accumulato.
  • un rapporto debito/Pil inferiore al 60%. Con il termine debito pubblico si indica non il deificit ma il debito dello stesso Stato nei confronti di un soggetto economico creditore e non deve superare il limite del 60%).
  • ovvero, in alternativa alla seconda condizione, il rapporto debito/Pil in riduzione per almeno 1/20 l’anno nei due anni precedenti alla richiesta di assistenza finanziaria. 

Ad oggi non rispettano tali parametri dieci Paesi della zona euro: Italia, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Finlandia, Slovenia, Lettonia, Grecia, Cipro. Per l’Italia rileva ovviamente il rapporto debito/Pil, che a causa di una crescita bassa o nulla non accenna a ridursi.

Si viene perciò a configurare più nettamente che in passato un’eurozona a due velocità: gli Stati che rispettano i parametri di cui sopra, possono accedere alla cd. “liquidità precauzionale”; gli altri – solitamente meno solidi – possono accedere alla cd. “liquidità rafforzata” a condizioni più onerose.

La linea di credito precauzionale in termini generali consiste nell’assistenza finanziaria concessa dal MES a un paese prima che si trovi in difficoltà nel reperimento di fondi sui mercati dei capitali, in modo da evitare situazioni di crisi, può essere:

  • (linea di credito condizionale) precauzionale (PCCL): a disposizione degli Stati membri la cui situazione economica e finanziaria è fondamentalmente solida, il che viene determinato sulla base del rispetto di sei criteri di ammissibilità quali debito pubblico, posizione sull’estero o accesso al mercato a condizioni ragionevoli.
  • (linea di credito soggetta a condizioni) rafforzate (ECCL): a disposizione degli Stati membri la cui situazione economica e finanziaria continua a essere solida, ma che non soddisfano i criteri di ammissibilità della PCCL. Il ricorso all’ECCL è subordinato all’adozione di misure correttivevolte a evitare problemi futuri per quanto concerne l’accesso al finanziamento sul mercato.

Di conseguenza vi è un gruppo di Stati che può accedere alla liquidità “precauzionale” (senza peraltro dover più sottoscrivere il memorandum of understanding) e un gruppo che non può accedervi, se non tramite l’adozione di misure di austerità.

2) Memorandum.Il gruppo dei Paesi che non rientrano in almeno uno dei parametri richiesti, pertanto, può accedere solo alla liquidità “rafforzata”.Questi sono obbligati alle seguenti novità:

  • la firma del memorandum of understanding cioè di misure di austerità fiscale sia sul lato della spesa che delle entrate. Chi accede alla liquidità “rafforzata” deve firmare il memorandum, ma può accedere effettivamente alla liquidità richiesta solo se il suo debito pubblico viene giudicato sostenibile da parte di Commissione Europea, Bce e MES. In particolare, la richiesta di assistenza dello Stato è analizzata dalla Commissione europea e della BCE e ne danno un parere e successivamente il MES, sulla scorta dello stesso parere, esprime il proprio parere vincolare e decisivo, esprimendosisulla capacità del Paese che dovrebbe ricevere il sostegno finanziario di ripagarlo. Rispetto al Trattato del 2012, pertanto, si aggiunge un passaggio ulteriore all’analisi di sostenibilità del debito pubblico, nel quale il ruolo del MES è centrale.
  • Se il MES dovesse esprimersi negativamente sulla capacità del Paese di ripagare il prestito si aprirebbe una fase di forte incertezza sui mercati. In questo caso, molto probabilmente – ancorché non ancora specificato chiaramente dal trattato, richiedersi la ristrutturazione del debito.

La ristrutturazione del debito consiste nel processo che consente a un’entità, in questo caso pubblica, che si trovi in dissesto finanziario, di ridurre o rinegoziare un debito che non è in grado di rimborsare al fine di migliorare o ripristinare la liquidità, in modo da poter continuare a operare.

Nella premessa all’articolato il punto 12 asserisce che “in casi eccezionali una forma adeguata e proporzionata di coinvolgimento del settore privato, confomemente alla prassi del FMI, deve essere presa in considerazione (…)”. Di conseguenza, si prenderebbe in considerazione la ristrutturazione. Il default di uno Stato però non è mai totale: solitamente il suo debito viene “ristrutturato” dilazionando i pagamenti con i creditori, mentre contemporaneamente viene “costretto” ad aumentare le entrate, cioè le tasse, e a ridurre la spesa pubblica. Una volta dichiarato il default, anche se parziale, lo Stato non sarebbe comunque più in grado di pagare subito gli interessi su Bot e Btp, né di rimborsare il capitale: la ristrutturazione del debito dilazionerebbe i termini di pagamento, ma ciò farebbe crollare il valore dei titoli rendendoli invendibili.

Le banche, tra i principali possessori di titoli di Stato, si troverebbero improvvisamente a non avere le entrate degli interessi e rischierebbero a loro volta di fallire. I cittadini, spaventati dalla situazione, inizierebbero a prelevare i loro risparmi dalle banche aggravando ulteriormente la crisi. Le aziende private e le famiglie si troverebbero a non aver più credito da parte delle banche: la produzione si fermerebbe così come i consumi, alimentando un pericoloso circolo dal quale diventerebbe sempre più difficile uscire.

Per quanto riguarda i titoli di stato italiani, i detentori sono per oltre il 70% attori nazionali (famiglie, risparmiatori, banche, altre istituzioni finanziarie, imprese) e per meno del 30% attori esteri. Si tratta di una torta complessiva da 2.000 miliardi (su un debito pubblico totale di oltre 2.300), dei quali circa 700 miliardi in mani estere.

Vero è che l’ipotesi di ristrutturazione del debito era avanzats anche nel Trattato originario, ma a differenza del passato ora si prevede che il MES possa valutare ed esprimersi sul programma di sostegno finanziario e quindi l’eventualità di un via libera al programma di sostegno condizionato alla ristrutturazione del debito si fa più concreta.

Ebbene, MES sì o MES no?

È innegabile che il MES è servito, serva e servirà – si spera poco – nel corso degli anni. Il MES è una istituzione conveniente per tutta l’Eurozona, Italia compresa. L’Italia, a discapito di quanto raccontato, gioca un ruolo di primo rilievo nel MES avendo diritto di veto. Non si può neppure contestare che il MES non sia un meccanismo democratico. Esso pone al centro gli Stati in quanto è costituito proprio dai Ministri delle Finanze di ogni stato membro.

D’altra parte non si possono contestare le riserve nutrite in merito alle novità previste che sfavorirebbero tra tante nazioni anche l’Italia.

Tra le criticità che sono rilevate per l’Italia figura anzitutto la previsione di condizioni di accesso quale in particolare la necessità del rapporto debito/PIL del 60% in mancanza del rispetto delle quali il debito è giudicato insostenibile.

È poi controversa la necessaria e preliminare ristrutturazione del proprio debito pubblico da parte di uno Stato che si trova in difficoltà e il cui debito pubblico sia giudicato insostenibile dallo stesso MES. Il profilo attenzionato non è tanto la possibilità di ristrutturare il debito, quanto il fatto che la ristrutturazione sia una condizione necessaria e preventiva.

Ristrutturare il debito in Italia potrebbe avere conseguenze allarmanti in quanto il 70% del debito italiano è detenuto da operatori residenti quali ad esempio famiglie e imprese. La ristrutturazione sarebbe inciderebbe – in negativo – sulla ricchezza della popolazione, fallimenti bancari, disoccupazione, distruzione dei risparmi.