Dovrebbe ritenersi lecito il contratto con cui si stabilisce un compenso correlato al risultato pratico dell’attività svolta, in ragione di una percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene. È sempre nullo, invece, il contratto con cui per via diretta o indiretta, anche traversa, il professionista si faccia cedere una quota del credito o della res litigiosa.

Introduzione

Soverchi dubbi interpretativi sorgono con riferimento all’ammissibilità e alla validità del patto di quota lite, i.e.l’accordo intercorrente tra avvocato e cliente in virtù del quale il compenso del primo risulta calcolato in modo percentuale o proporzionale al risultato ottenuto dal proprio assistito. Le ragioni di tali dubbi sono da ravvisarsi nel carattere generico e ambiguo della normativa in vigore, di fonte primaria e secondaria. Al fine di condurre una disamina dell’istituto risulta indispensabile fare un cenno, seppur breve, all’evoluzione normativa che lo ha interessato.

Evoluzione normativa: brevi cenni

Il patto di quota lite è stato per lungo tempo vietato sul piano civilistico e deontologico, ritenendo che una simile convenzione fosse lesiva e offensiva della dignità e del prestigio della professione forense nella misura in cui si rendeva palese l’interesse dell’avvocato agli esiti del contenzioso.

Quanto al piano civilistico, l’articolo 2033, comma 3[1], del codice civile, nella sua formulazione originaria, vietava espressamente la stipula tra avvocati e i loro clienti di accordi concernenti beni che formano oggetto delle controversie loro affidate. Tali accordi, secondo la norma civilistica, sarebbero stati non solo affetti dalla forma più grave di invalidità, cioè la nullità, ma avrebbero anche potuto essere considerati presupposto per la richiesta del risarcimento del danno. 

Sul piano deontologico, ex articolo 45 del Codice deontologico forense[2], non solo si vietava esplicitamente la pattuizione suddetta, ma si prevedevano specifiche sanzioni disciplinari per l’avvocato. 

L’espresso ed esplicito di patto di quota lite viene abrogato con la Legge Bersani[3] con la quale si sostituisce il comma 3 dell’articolo 2233 del codice civile, «sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali». L’interpretazione letterale della presente disposizione induce i più a ritenere che sia stato tacitamente abrogato il divieto, fino ad allora esplicito, di patto di quota lite. Dalla norma discenderebbe, piuttosto, la configurazione di obbligo per l’avvocato di redire sempre per iscritto gli accordi conclusi con i propri clienti in materia di compenso.

A seguito della Riforma Bersani, sono state apportate modifiche anche all’articolo 45 del Codice deontologico forense[4], consentendo all’avvocato di pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, proporzionati all’attività svolta.

Sul punto, è bene precisare che ferme restano le disposizioni di cui all’articolo 1261 del codice civile[5] in materia di compenso dell’avvocato, ove si dispone l’assoluto divieto per gli avvocati di acquisto di crediti litigiosi. Di conseguenza, un contratto che disponga la cessione all’avvocato dei diritti sui quali pende la lite è affetto da nullità e sarà fondamento della richiesta di risarcimento del danno. 

Normativa vigente

Attualmente vigenti sono le norme del codice civile sopra citate e le disposizioni introdotte dalla Riforma Forense nel 2012 è intervenuta la Riforma Forense[6], la quale è intervenuta in materia di conferimento di incarichi e compenso dell’avvocato. Ex articolo 13 della Riforma Forense[7] si dispone che il compenso può essere pattuito a tempo, in misura forfetaria, in base all’assolvimento e ai tempi della prestazione, per fasi o per l’intera attività, purché tale pattuizione non comprenda la quota oggetto della prestazione o della contesa in giudizio

A seguito della Riforma forense, è stato deliberato il nuovo Codice deontologico forense[8], il cui articolo 25[9]parafrasa il disposto ex articolo 13 della Riforma forense, disponendo che è lecito il patto avente ad oggetto la pattuizione, anche per percentuale, del compenso dovuto dall’avvocato, purché non venga pagato con una quota del bene in lite.

Profili critici e dubbi interpretativi

I dubbi interpretativi di dottrina[10] e giurisprudenza sull’ammissibilità del patto di quota lite sorgono con riferimento al contrasto vigente tra la previsione, d’un lato, per la quale è lecito l’accordo di un compenso stabilito in percentuale e, dall’altro, il divieto esplicito di retribuire l’avvocato con una quota del bene in lite. Al fine di condurre un’interpretazione sistematica dell’istituto in oggetto, è bene far riferimento alle più recenti pronunce giurisprudenziali in materia.

Giurisprudenza

Ammettono il patto di quota lite:

  • Trib. Bologna, sez. II, 12 giugno 2020, n.881 (massima in Redazione Giuffré 2020), per il quale «è valido il patto con cui il compenso dell’avvocato venga stabilito in misura percentuale qualora stipulato in forma scritta, nel rispetto quindi della disposizione di cui all’art. 2233, comma 2, c.c. e qualora le parti abbiano ancorato la percentuale menzionata, non già al risultato finale delle varie controversie (il che avrebbe connotato il contratto in termini di aleatorietà), ma, piuttosto, al valore dell’affare».
  • Trib. Nola, 19 settembre 2019 (massima in Foro it. 2019, 12, I, 4102), secondo cui «il patto di quota lite è valido solo se le parti hanno predeterminato, al momento della conclusione del contratto, il valore dell’affare, o quantomeno hanno individuato l’importo che ritengono di poter ottenere; non è invece valido quando le parti si sono limitate ad individuare una percentuale o una quota, rimettendo ogni altra determinazione al risultato conseguito all’esito del giudizio».
  • Trib. Roma, sez. XI, 13 gennaio 2015 (massima redazionale, 2015), secondo cui «il patto di quota lite è nullo qualora stipulato verbalmente. Tale profilo di irritualità, tuttavia, deve essere tempestivamente contestato e non può essere rilevato d’ufficio».

Non ammettono il patto di quota lite:

  • Trib. Perugia, sez. II, 4 marzo 2020, n. 2135, (massima in Redazione Giuffré 2020), secondo cui il patto di quota lite è vietato dall’articolo 2233 del codice civile. Secondo la Corte, però, non sussiste il patto «non solo nel caso di convenzione che preveda il pagamento al difensore sia in caso di vittoria che di esito sfavorevole della causa, di una somma di denaro (anche se in percentuale all’importo, riconosciuto in giudizio alla parte) non in sostituzione, bensì in aggiunta all’onorario, a titolo di premio (cosiddetto palmario), o di compenso straordinario per l’importanza e difficoltà della prestazione professionale, ma anche quando la pattuizione del compenso al professionista, ancorché limitato agli acconti versati, sia sostanzialmente, seppur implicitamente, collegata all’importanza delle prestazioni professionali od al valore della controversia e non in modo totale o prevalente all’esito della lite.

Interpretazione: nuove prospettive

Alla luce di quanto emerso, dovrebbe indagarsi l’ammissibilità dell’istituto in oggetto tramite un’interpretazione non solo sistematica delle norme, ma anche riferita alla intentio legis sottesa. Dall’interpretazione delle norme e, in particolare, dell’articolo 13 della Riforma Forense, persiste un contrasto invalicabile in quanto si prevede prima la possibilità di stabilire un compenso in percentuale, poi il divieto del patto di quota lite. È necessario, quindi, riferirsi all’intenzione del Legislatore nella formulazione della norma ambigua, la quale intenzione ricavabile dalla Relazione alla Riforma[11], è volta al ripristino del divieto del patto di quota lite.

Al fine di stabilire se il contratto, avente ad oggetto il compenso determinato a percentuale, sia ammissibile, è imprescindibile comprendere cosa si intenda per «valore dell’affare», dal momento che solo se il compenso è calcolato in percentuale a questo valore, il contratto potrà essere valido e ammissibile. È nullo il contratto con il quale si configuri, in favore dell’avvocato, un compenso legato al risultato del contenzioso (es. il risarcimento del danno ottenuto in giudizio). Il contratto con cui si determina un compenso che si riferisca al valore dell’affare è, invece, lecito purché il contratto sia redatto per iscritto e il compenso sia di valore proporzionale all’opera prestata. Inoltre, in Italia, come negli altri paesi europei, è di recente prassi l’inserimento di una clausola di success fee, in virtù della quale il compenso degli avvocati o una sua parte vengono pagati solo nel caso in cui il professionista riesca a raggiungere un risultato favorevole per il cliente, sia in via giudiziale che in via stragiudiziale. Tale clausola, però, è lecita solo nella misura in cui le parti siano stipulati patti scritti che riproporzionino i compensi professionali ai risultati raggiunti senza però riferirsi in alcun modo a delle quote del bene oggetto di contenzioso. 

Secondo alcuni[12], la pattuizione del compenso a percentuale sul valore dei beni o degli interessi litigiosi può essere rapportata al valore ma non al risultato ottenuto e questo per evitare ogni commistione di interessi tra avvocato e cliente legata agli esiti della lite. Si afferma poi che le disposizioni in commento dovrebbero interpretarsi nel senso che «è fatto divieto all’avvocato di trattenersi direttamente una percentuale della quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa» ma «è consentito all’avvocato pattuire compensi parametrati (cioè proporzionati) al raggiungimento degli obbiettivi conseguiti o di aumentare i compensi in funzione del buon esito della lite»[13]. Di talché, dal combinato disposto del comma 3 dell’articolo 13 della legge n. 241/2012 e del comma 4 dell’articolo 25 del Codice deontologico forense, dovrebbe ritenersi lecito il contratto con cui si stabilisce un compenso correlato al risultato pratico dell’attività svolta, in ragione di una percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene. È sempre nullo, invece, il contratto con cui per via diretta o indiretta, anche traversa, il professionista si faccia cedere una quota del credito o della res litigiosa.


[1] L’articolo, come si vedrà nel prosieguo, è stato modificato nel 2006. La sua formulazione originaria prevedeva che «gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e di danni».

[2] Ex articolo 45 del Codice deontologico forense, si prevedeva che «è vietata la pattuizione diretta ad ottenere, a titolo di corrispettivo della prestazione professionale, una percentuale del bene controverso ovvero una percentuale rapportata al valore della lite».

[3] SI fa riferimento all’articolo 2 del decreto legislativo 4 luglio 2006 n. 223, convertito con legge 4 agosto 2006 n. 248.

[4] L’articolo 45 del Codice deontologico forense risulta così novellato: «è consentito all’Avvocato pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, fermo il divieto dell’articolo 1261 c.c. e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta, fermo il principio disposto dall’art. 2233 del Codice civile».

[5] L’articolo 1261 del codice civile dispone che «i magistrati dell’ordine giudiziario, i funzionari delle cancellerie e segreterie giudiziarie, gli ufficiali giudiziari, gli avvocati, i procuratori, i patrocinatori e i notai non possono, neppure per interposta persona, rendersi cessionari di diritti sui quali è sorta contestazione, davanti l’autorità giudiziaria di cui fanno parte o nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni, sotto pena di nullità e dei danni. La disposizione del comma precedente non si applica alle cessioni di azioni ereditarie tra coeredi, né a quelle fatte in pagamento di debiti o per difesa di beni posseduti dal cessionario».

[6] Legge del 31 dicembre 2012 n. 247.

[7] Al comma 3 si dispone che «la pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione». Si precisa, poi, al comma 4, che «sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa».

[8] Approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 31/01/2014

[9] L’articolo 25 del nuovo Codice deontologico forense dispone che «la pattuizione dei compensi, fermo quanto previsto dall’art. 29, quarto comma, è libera. È ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfettaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione, non soltanto a livello strettamente patrimoniale. Sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso, in tutto o in parte, una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa».

[10] E. R. Restelli, Azioni senza indicazione del valore nominale e disciplina del prezzo minimo di emissione, in Riv. delle società, 2018, 2, p. 406, nota 68, ove si afferma che vige ancora il «perdurante divieto di stipulare un patto di quota lite tra cliente e avvocato»; S. Calvetti, Patto di quota lite nullo: avvocato senza diritto al compenso?, in Diritto & Giustizia, 2018, 1, p. 137, nota a Cass. civ., sez. II, 30 luglio 2018, n. 20069, ove si afferma che l’avvocato che abbia stipulato un patto di quota lite ha diritto ugualmente al compenso secondo le tariffe professionali. È precisato, infatti, che «la nullità del patto di quota lite non concerne l’intero accordo ma soltanto la clausola relativa, ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c., per cui, se l’attività professionale è portata a compimento, questa deve essere liquidata secondo il rinvio alle tariffe professionali»; M. Salerno, La rilevabilità d’ufficio della nullità del patto di quota lite per “incongruità” del compenso, in Ilprocessocivile.it, 2020, 3, nota a Cass. civ., sez. II, 26 novembre 2019, n. 30837, ove si afferma che «possa insinuarsi il dubbio di una sopravvivenza del divieto del patto di quota lite» dal momento che «la Corte territoriale non ha fondato la decisione sulle norme deontologiche poste a carico del difensore, ma, nell’ambito della ricostruzione della normativa, ha affermato che, a seguito dell’abolizione del divieto del patto di quota lite, la congruità del patto è previsto anche dal punto di vista delle regole deontologiche, con la modifica dell’art. 45 del codice deontologico forense, che consente all’avvocato di pattuire «con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti», alla condizione, tuttavia, «che i compensi siano proporzionati all’attività svolta»; M. Marotta, Ius superveniens: prescrizione e legge professionale forense, in Diritto & Giustizia, 2019, 109, p. 3, nota a Cass. civ, SS. UU., 13 giugno 2019, n. 15896, ove l’autrice afferma che con la legge n. 274 del 2012 «torna il divieto del patto di quota lite e la difesa d’ufficio assume un ruolo centrale. In particolare, la Legge Professionale de qua all’art. 3 prevede i doveri e la deontologia dell’esercizio della professione forense: allontanandosi dalla natura di mere norme etiche, infatti, il Consiglio Nazionale Forense ha predisposto ed approvato il Codice Deontologico Forense, in vigore dal 15 dicembre 2014»; M. Tonetti, ‘Patto di quota lite’: vietato solo agli avvocati, in Diritto & Giustizia, 2014, 1, p. 40, nota a Cass. civ., sez. II, 2 ottobre 2014, n. 20839, ove si ribadisce che «il divieto del c.d. ‘patto di quota lite’, disposto dall’art. 2233, comma 3, c.c., si riferisce esclusivamente all’attività svolta da professionisti abilitati al patrocinio in sede giurisdizionale e non anche all’attività amministrativo – contabile svolta dal consulente del lavoro in ambito previdenziale e finalizzata al conseguimento di sgravi contributivi».

[11] In < https://leg16.camera.it/561?appro=742>, si legge che l’articolo 13 interviene sulla materia del compenso del professionista (definizione utilizzata in luogo di “tariffe professionali”) e del conferimento dell’incarico. Abrogato il tradizionale sistema tariffario (v. da ultimo l’art. 9 del DL 1/2012 che contiene ulteriori disposizioni sul compenso professionale), l’articolo 13 della legge 247 trasforma l’obbligo di pattuire preventivamente il compenso in una norma generale che stabilisce che “di regola”, il compenso è pattuito per iscritto; prevede le possibili modalità di pattuizione, inserendo quella a percentuale sul valore dell’affare; ma proibisce, ripristinando il divieto del patto di quota lite, il compenso legato al risultato».

[12] U. Perfetti, Il compenso dell’avvocato, in Rassegna forense, 3-4, 2013, p. 661.

[13] A. Barca, La definizione del compenso tra norme di legge e nuovo codice deontologico, in Rassegna forense, 1, 2014, p.13.