Principio di vicinanza della prova o del “più probabile che non”? In tema di ripartizione dell’onus probandi per accertamento di responsabilità medica sono numerose le pronunce giurisprudenziali e i contributi della dottrina anche con riferimento ai princìpi di vicinanza della prova e del “più probabile che non”.

L’introduzione del principio della vicinanza della prova in tema di responsabilità medica è recente e si deve alla giurisprudenza. In particolare, le Sezioni Unite del 2005[1] hanno sottratto l’onere della prova al paziente, creando un meccanismo presuntivo che non sarebbe stato applicato con una interpretazione rigida delle regole in tema di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Tale principio di creazione giurisprudenziale prevede che l’onere della prova grava sul debitore-medico/struttura sanitaria e non già sul paziente, qualora non si riesca a dimostrare, secondo la regola del più probabile che non, che la condotta medica ha prodotto il danno o che non lo ha prodotto[2].

Principio di vicinanza della prova o del “più probabile che non”?

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha escluso l’applicabilità del principio di vicinanza della prova, in favore del principio del “più probabile che non”, qualora «le circostanze oggetto di prova (…) rientrano nella piena conoscibilità ed accessibilità di entrambe le parti, tali da consentire senza particolari difficoltà alla parte di provare i propri requisiti soggettivi»[3]. In particolare, gli Ermellini richiamano l’orientamento già seguito dalla Corte in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, secondo il quale non può applicarsi il principio della maggiore vicinanza della prova al debitore ma «incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’evento di danno e l’azione o l’omissione dei sanitari»[4]. Inoltre, la Corte ribadisce che nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, «è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno» e, di conseguenza, qualora la causa del danno sia rimasta assolutamente incerta, «la domanda deve essere rigettata»[5].

Secondo la Corte, l’orientamento suddetto non si pone in contrasto con il principio di vicinanza in tema di responsabilità professionale da contatto sociale del medico. Il principio della vicinanza della prova non si applica in situazioni nelle quali «l’inadempimento “qualificato”» comporta di per sé stesso, in assenza di fattori alternativi più probabili, la presunzione della derivazione del danno. Nel caso di specie[6], la prova della prestazione sanitaria contiene già quella del nesso causale, sicché spetta al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., comma 2, e non la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c.

Il contrasto tra il principio di vicinanza della prova e il principio del “più probabile che non” «è solo apparente»[7], dal momento che il principio di vicinanza della prova si applica con «riferimento alla prova del solo nesso causale relativo alla fattispecie estintiva dell’obbligazione (e non alla prova del nesso eziologico attinente alla fattispecie costitutiva della responsabilità)»[8]. Pertanto, secondo la pronuncia in esame, sul paziente danneggiato (ricorrente) grava l’onere di provare il nesso di causa materiale, elemento costitutivo della responsabilità; mentre sul medico e sulla struttura sanitaria (resistente) grava l’onere di provare il nesso di causa relativo alla fattispecie estintiva dell’obbligazione.


[1] Il riferimento è alle sentenze della Cassazione n. 577 e 582 in tema di responsabilità medica rispettivamente contrattuale ed extracontrattuale.

[2] Altri riferimenti nella giurisprudenza di merito: Trib. Roma, 16 gennaio 2019, n. 1132, secondo il quale incombe sul danneggiato l’onere di provare la condotta inadempiente o inesatta del medico, dovuta da negligenza o imperizia, mentre grava sul sanitario provare il proprio esatto adempimento e dunque la mancanza di colpa nell’esercizio della prestazione; Trib. Roma, 16 ottobre 2017, n. 19388, secondo cui incombe sul paziente provare l’esistenza del contatto con il medico e allegare la cattiva esecuzione della prestazione ricevuta nonché l’aggravamento della situazione patologica astrattamente ricollegabile all’inesatto intervento; mentre resta a carico del sanitario e della struttura l’onere di provare di aver agito con diligenza e che gli eventuali esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile, non evitabile anche avendo osservato le regole tecniche del caso.

[3] Cass. civ., 2 settembre 2019, n. 21939. Nel caso di specie, la ricorrente lamenta di aver contratto l’HCV (epatite C) durante un ricovero nella struttura sanitaria chiamata in giudizio.

[4] La Corte richiama Cass., ord., 20 agosto 2018, n. 20812; Cass. 7 dicembre 2017, n. 29315.

[5] La Corte richiama Cass. 15 dicembre 2018, n. 3704; Cass. 26 luglio 2017, n. 18392.

[6] La ricorrente scopre di essere affetta da epatite C, patologia che sostiene essere insorta a causa del ricovero presso una struttura sanitaria ove si era recata per degli esami medici prima di un intervento di artoprotesi al ginocchio.

[7] S. Cafarelli, La responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e la prova del nesso di causalità, nota a Cass. civ., sez. VI, 02 settembre 2019, n. 21939, in GiustiziaCivile.com, 5 novembre 2019.

[8] Idem.